Con il decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, recante «Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale», convertito in legge 11 settembre 2020, n. 120, il Legislatore è nuovamente intervenuto sul reato di abuso d’ufficio, di cui all’art. 323 del codice penale.
Fin dai primi anni della sua operatività, la fattispecie del delitto previsto all’art. 323 c.p. è stato oggetto di molteplici interventi da parte del Legislatore. La norma in esame è infatti, nella sua attuale formulazione, il risultato di un lungo e tormentato cammino legislativo che nasce dalla generale esigenza di ristrutturazione dell’intero sistema dei delitti contro la pubblica amministrazione.
Nell’impianto del codice del 1930, l’abuso d’ufficio, disciplinato nell’art. 323, sotto la rubrica «Abuso di ufficio in casi non preveduti specificatamente dalla legge», rappresentava una sorta di norma di chiusura. L’abuso d’ufficio, alla luce delle accresciute esigenze di determinatezza nel quadro di una moderna lettura del principio di legalità, ha scontato significativi difetti di tecnica normativa.
Nel tentativo di conferire maggiore determinatezza alla norma sull’abuso di ufficio, si è giunti alla riforma di cui alla legge 26 aprile 1990, n. 86, la quale, tra l’altro, ha riformulato integralmente il testo dell’art. 323 del c.p., senza tuttavia riuscire a colmare le incertezze ed oscillazioni, tanto interpretative quanto applicative, derivanti da una sempre carente descrizione normativa del fatto.
A distanza di pochi anni dalla prima riforma, con l’intento di supplire all’infruttuoso tentativo del 1990, il Legislatore è tornato a modificare la materia e, ancora una volta, il delitto di abuso di ufficio, con legge 16 luglio 1997, n. 234, è stato integralmente riscritto. Infine con la legge 6 novembre 2012, n. 190, nel rilancio in termini di inasprimento della cornice edittale, si è aggravata la pena prevista al comma I, art. 323 c.p. Tuttavia tali modifiche non permettevano di superare tutti i dubbi fino a quel momento avanzati sul difetto di determinatezza della fattispecie.
Sulla base di tali premesse, l’ulteriore recente intervento del Legislatore è volto a rendere più agevole l’attività del pubblico amministratore. Per ovviare all’inefficienza dell’azione amministrativa, dovuta alla frequente “paura della firma”, il Legislatore della riforma si è orientato nel senso della contrazione dello spazio della punibilità. L’art. 23, comma I del citato D.L. 76/2020 ha sostituito, all’art. 323, comma I, del codice penale, le parole «di norme di legge o di regolamento» con le seguenti: «di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità».
La sostituzione delle parole «di norme di legge o di regolamento» con quelle «di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità» pare dunque aver effettivamente ristretto l’ambito di applicazione della fattispecie in esame.
Oggi la fattispecie in questione prevede che la condotta del pubblico funzionario debba essere connotata dalla violazione di norme cogenti per l’azione amministrativa, fissate esclusivamente da fonti primarie e delineate in termini puntuali.
Alla luce della nuova riforma, in una importate pronuncia, subito all’indomani della riforma, il Supremo Consesso ha così statuito: «La nuova formulazione della fattispecie di abuso di ufficio, restringendone l’ambito di operatività con riguardo al diverso atteggiarsi delle modalità della condotta, realizza una parziale abolito criminis in relazione ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della riforma, che non siano più riconducibili alla nuova versione dell’art. 323 c.p., siccome realizzati mediante violazione di norme regolamentari o di norme di leggi generali e astratte, dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse o che comunque lascino residuare margini di discrezionalità». (Cass. Pen., Sez. VI, 8 gennaio 2021, n. 442.)
Lo stralcio della sentenza poc’anzi citata lascia trasparire tutta la difficoltà che accompagna la dimensione applicativa del nuovo art. 323 c.p. La rottura dell’inscindibile nesso tra sindacato del giudice penale sulla discrezionalità amministrativa e delitto di abuso d’ufficio, compiuta dal D.L. n. 76 del 2020, al fine di sottrarre al controllo del giudice penale l’attività degli agenti pubblici, sembra infatti determinare evidenti ripercussioni nella operatività del reato di cui all’art. 323 c.p.
Si profila il concreto rischio di escludere – in modo irragionevole – dal campo applicativo molti dei casi più gravi di abuso d’ufficio, le condotte maggiormente lesive per il bene della imparzialità e del buon andamento dell’attività della pubblica amministrazione.
Appare pertanto evidente l’intento del Legislatore del 2020 di depenalizzare l’abuso d’ufficio dietro il paravento di una riformulazione volta a meglio determinare la fattispecie e a rassicurare gli amministratori pubblici. Dunque, per negare l’abolitio criminis ed adattare il nuovo precetto dell’art. 323 c.p. alle ragioni della punibilità dei funzionari pubblici, sarà necessario e sufficiente inquadrare il fatto nello sviamento di potere, ovvero ravvisare la violazione di un presupposto di fatto della violazione di legge.
Infatti, non può escludersi che, pur difronte ad una precisa scelta del Legislatore del 2020 di limitare l’ambito applicativo dell’art. 323 c.p. a poche e residuali ipotesi di violazioni nell’attività vincolata della P.A., la giurisprudenza non vada in direzione opposta, creando una sorta di diritto vivente analogo al precedente. Da una attenta analisi della condotta tipizzata sorgono evidenti dubbi in riferimento ad un eccessivo arretramento dell’intervento penale da un lato e dall’altro ad un incontrastato avanzamento della discrezionalità amministrativa.
Sebbene sia apprezzabile il tentativo di rendere più aderente al principio di tipicità in stricto sensu la disciplina sull’abuso d’ufficio, nonché il tentativo di agevolare l’individuazione delle condotte penalmente rilevanti, la novella apportata dal Legislatore del 2020 al delitto di cui all’art. 323 c.p. appare un’opera incompleta a causa del disordine che caratterizza il nostro sistema amministrativo e alla quale difficilmente una legislazione emergenziale può porre rimedio.
Quanto emerso mette in luce il profilo di una riforma deficitaria che, a causa del suo drastico ridimensionamento, rischia di divenire potenzialmente responsabile di compromissioni di fattispecie contigue.