IL RICICLAGGIO NEL TERZO MILLENNIO

11 Marzo 2024

Dal money laundering al cyber laundering i suoi effetti sul D.Lgs. 231/2001

Un panorama penale in evoluzione

La lotta al riciclaggio ha senz’altro assunto un ruolo di spicco nel panorama giuridico moderno e il diritto penale, soggetto a un’evoluzione continua, è costretto oggi a fronteggiare fenomeni criminali sempre più complessi. In particolare, oltre ai c.d. white collar crime, nati in risposta ai mutamenti micro e macro economici del ‘900, nel nuovo millennio si è assistito alla comparsa dei dark collar crime, reati consumati da soggetti con grandi abilità informatiche, come conseguenza del recente sviluppo tecnologico.

In via preliminare, occorre anzitutto analizzare le differenti nozioni di riciclaggio – la prima prevista dal codice penale, la seconda disciplinata dal D.Lgs. 231/2007 – nonché la loro evoluzione normativa e le problematiche interpretative a esse connesse.

Introdotta per la prima volta dal D.L. n. 59 del 21 marzo 1978, all’interno del codice penale all’art. 648-bis, la fattispecie del reato di riciclaggio è stata più volte oggetto di modifiche e innovazioni da parte del Legislatore nazionale sulle mosse degli obblighi derivanti dal quadro internazionale.

Il processo di cui si compone la fattispecie penale in esame si costituisce principalmente di tre fasi distinte. Il primo stadio, il “collocamento” (placement stage), ha come scopo principale quello di trasformare i proventi derivanti dalle attività criminali – generalmente sotto forma di denaro contante – in moneta scritturale o saldi attivi presso intermediari finanziari.

La seconda fase, quella di “stratificazione” (layering stage), consiste nella movimentazione del denaro tramite una serie di operazioni in grado di dare una nuova veste legale al provento del reato, recidendo il collegamento con la sua origine delittuosa.

Il “reimpiego” (integration stage) rappresenta l’ultima fase dell’attività criminale e indica l’effettiva reintroduzione, l’impiego e lo sfruttamento delle somme nel mercato, attraverso le più svariate operazioni tipiche delle attività economiche e imprenditoriali quali investimenti, pagamento dei dipendenti, acquisto dei beni strumentali, creazione di fondi etc. Al termine di questa procedura, ricostruire il percorso di laundering e risalire alla provenienza del denaro risulta pressoché impossibile.

Il reato di riciclaggio ex art. 648-bis c.p. copre gli stadi del collocamento e della stratificazione del denaro, beni o utilità di provenienza illecita, mentre l’attività di reimpiego di questi all’interno dell’economia legale si consolida nella fattispecie prevista all’art. 648-ter del codice penale, quale momento in grado di creare maggiori effetti distorsivi di allarme sociale.

Preme comunque sottolineare come sia in realtà residuale l’applicazione di tale fattispecie di reato dal momento che, in virtù della clausola di sussidiarietà che apre l’articolo, la condotta ivi contemplata, in caso di concorso di persone nei reati di cui agli artt. 648 e 648-bis, risulta un mero post factum.

In risposta al numero sempre crescente di queste operazioni criminose, il Legislatore ha ritenuto necessario implementare la fattispecie di riciclaggio disciplinata dal codice penale con una fattispecie capace di comprendere tutti i singoli passaggi operativi della più ampia categoria di riciclaggio. In attuazione della III Direttiva Antiriciclaggio, il Legislatore italiano ha pertanto adottato il D.Lgs. 231/2007, inserendo al suo interno una forma di riciclaggio di carattere economico in ottica prettamente amministrativistica, volta a introdurre confini più estesi, soglie di controllo e sanzionabilità ulteriori rispetto a quanto previsto dal codice penale. Secondo quanto previsto dall’art 2 del D.Lgs. 231/2007, la nozione “amministrativa” di riciclaggio comprende: in primo luogo “la conversione o il trasferimento di beni, effettuati essendo a conoscenza che essi provengono da un’attività criminosa o da una partecipazione a tale attività, allo scopo di occultare o dissimulare l’origine illecita dei beni medesimi o di aiutare chiunque sia coinvolto in tale attività a sottrarsi alle conseguenze giuridiche delle proprie azioni”. In secondo luogo, “l’occultamento o la dissimulazione della reale natura, provenienza, ubicazione, disposizione, movimento, proprietà dei beni o dei diritti sugli stessi, effettuati essendo a conoscenza che tali beni provengono da un’attività criminosa o da una partecipazione a tale attività”. È inoltre previsto che, al momento della ricezione dei beni, si sia informati della provenienza illecita di questi ultimi. E, in ultimo, la “partecipazione ad uno degli atti di cui ai punti precedenti, l’associazione per commettere tale atto, il tentativo di perpetrarlo, il fatto di aiutare, istigare o consigliare qualcuno a commetterlo o il fatto di agevolarne l’esecuzione”.

Alla luce di quanto appena esposto, appare chiaro l’obiettivo del Legislatore: creare uno strumento capace di scongiurare e disincentivare le condotte di riciclaggio, in forza di un sistema repressivo il più efficace possibile, atto a garantire l’integrità dell’intero apparato economico-finanziario globale.

E’ lo stesso art. 63 del D.Lgs. 231/2007 a prevedere, al comma 3, l’inserimento dell’art. 25-octies all’interno del decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231.

La normativa antiriciclaggio e la responsibilità degli enti

I punti di connessione tra la normativa antiriciclaggio e la disciplina della responsabilità degli enti dal reato sono sostanzialmente tre: i destinatari, le misure organizzative, i controlli interni.

Relativamente al primo punto, va sottolineato che la sovrapposizione tra le due normative si riscontra in merito ai soggettivi definiti all’art. 1 del D.Lgs. 231/2001 che siano anche destinatari della normativa antiriciclaggio ex art. 3 D.Lgs. 231/2007, con particolare riferimento alle banche nonché agli intermediari finanziari costituiti in forma societaria.

Tali soggetti, oltre alle sanzioni espressamente previste all’art 25-octies del D.Lgs. 231/2001, sono chiamati a rispondere in solido con gli autori degli illeciti previsti dal Capo II del D.Lgs. 231/2007 -Sanzioni amministrative -.

La logica delle “due 231” risulta pertanto essere la medesima: prevenire e ridurre il rischio della commissione di reati.

In merito al secondo punto di connessione, l’onere organizzativo, richiesto agli enti assoggettati a entrambe le discipline, persegue come finalità condivisa la riduzione del rischio di commissione di illeciti affini, seppur sottoposti a normativa e requisiti distinti.

L’adozione dei modelli organizzativi ex D.Lgs. 231/2001 si configura in capo all’ente come un “onere”. Il fine ultimo risulta pertanto essere quello di evitare, per quanto possibile, che il personale dell’impresa commetta determinati reati nell’interesse o a vantaggio della stessa.

Il D.Lgs. 231/2001, non ancorato a obblighi normativamente sanzionati, prevede pertanto la possibile esenzione da responsabilità per le societas che abbiano autonomamente intrapreso il cammino verso la legalità, adottando modelli organizzativi il più possibile idonei ed evitando la commissione del rischio-reato. I modelli organizzativi sono costruiti beneficiando delle best practices elaborate per la categoria di appartenenza e le disposizioni finalizzate a prevenire i reati di riciclaggio ex art. 25-octies e si riferiscono esclusivamente a comportamenti dei soggetti appartenenti all’ente medesimo.

La disciplina antiriciclaggio del D.Lgs. 231/2007 detta, invece, disposizioni imperative in materia di procedure organizzative. È lo stesso Decreto a prevedere misure volte a tutelare l’integrità del sistema economico e finanziario, nonché la correttezza dei comportamenti degli operatori tenuti alla loro osservanza. Unico temperamento che lo stesso Legislatore prevede è pertanto quello che dette misure organizzative debbano essere comunque proporzionate al rischio in relazione al grado di complessità dell’attività svolta. Gli organi aziendali dei soggetti destinatari sono dunque tenuti, nell’ambito delle loro competenze a porre in essere idonee misure organizzative e operative volte a limitare tale rischio, andando a definire politiche aziendali coerenti con i principi e le regole antiriciclaggio.

Per quanto attiene, infine, al sistema dei controlli interni, il D.Lgs. 231/2001 prevede l’istituzione di un Organismo di Vigilanza dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo, il cui compito è quello di vigilare sul funzionamento, aggiornamento e sul rispetto del Modello organizzativo di cui l’ente si è dotato.

Entrambe le discipline “231” si muovono sulla base di un denominatore comune: quello della prevenzione e mitigazione dei fattori di rischio aziendali e di condotte dannose.

Nell’ambito della normativa prevista dal D.Lgs 231/2007, la prevenzione ed il contrasto del riciclaggio si realizza attraverso controlli organizzativi, tecnologici e “formativi” che permettono la piena conoscenza della clientela, la tracciabilità delle transazioni finanziarie nonché l’individuazione delle operazioni sospette di riciclaggio.

Fondamentale, a questo scopo, è l’apporto offerto dalle Autorità pubbliche di Vigilanza circa la possibilità di garantire l’eteronormazione degli strumenti organizzativi e di controllo.

Sia la normativa antiriciclaggio sia il D.Lgs. 231/2001 sono il prodotto di una comprovata esigenza sovranazionale di prevenzione del sistema economico e imprenditoriale, spesso utilizzato per il perseguimento di finalità illecite.

Benché l’assetto organizzativo dell’antiriciclaggio sia volto a individuare e denunciare comportamenti affini a quelli illeciti, obiettivo cardine del Modello 231 è esimere l’ente dalle condotte illecite a opera dei soggetti facenti parte della stessa compagine societaria, posti in essere nell’interesse o vantaggio dell’ente stesso.

Il Modello 231, nelle parti concernenti la prevenzione dei reati previsti all’art 25-octies del D.Lgs. 231/2001, diverrà così una sorta di cassa di risonanza delle disposizioni espressamente previste dal più ampio sistema di antiriciclaggio e, coerentemente con la natura di esimente da responsabilità, non solo sarà chiamato a soddisfare la prevenzione dei reati previsti dagli artt. 648 ss c.p., ma sarà anche tenuto a estendere i suoi confini in un sistema di compliance antiriciclaggio sempre più ampio e complesso, sebbene il radicamento della responsabilità ex D.Lgs. 231/2001 risulti configurabile solo in presenza di condotte poste in essere nell’interesse o a vantaggio dell’ente.

In ambito 231/2001, una delle fattispecie che più ha generato dibattiti, tanto dottrinali quanto giurisprudenziali, è stata l’introduzione del reato di autoriciclaggio – espressamente disciplinato e previsto all’interno dell’art. 648 ter.1 c.p. – all’interno dello stesso art. 25-octies del Decreto.

Il nuovo reato di autoriciclaggio permette di punire chi compia attività di money laundering sui proventi derivanti dal reato che egli stesso ha commesso. La fattispecie ingloba sia le condotte di riciclaggio (648-bis) sia quelle di reimpiego (648-ter), come recita il primo comma dell’art. 648 ter.1 c.p. ”Si applica la pena della reclusione da due a otto anni e della multa da euro 5.000 a euro 25.000 a chiunque, avendo commesso o concorso a commettere un delitto non colposo, impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa..”

L’autoriciclaggio si configura quando vi è quel quid pluris, richiesto dalla norma incriminatrice, che lo differenzia dal reato di riciclaggio: ovvero quando dal reato presupposto scaturisce un vantaggio patrimoniale che si può “ripulire” in modo da evitare che sia ricondotto al delitto sotteso. La fattispecie scatta pertanto unicamente quando la condotta ostacola “concretamentente” l’identificazione della provenienza delittuosa del denaro, richiedendo pertanto nella condotta del soggetto imputato una “intrinseca capacità dissimulatoria”.

Come è noto, la responsabilità dell’ente ex D.Lgs. 231/2001 sorge quando un soggetto apicale o sottoposto compia un reato presupposto (specificatamente previsto dal Decreto stesso) nell’interesse o vantaggio dell’ente medesimo.

L’applicazione dei principi generali a fronte della nuova fattispecie di autoriciclaggio, relativamente alla responsabilità da reato degli enti, è stata oggetto di dibattito: il reato presupposto è commesso all’interno della società da coloro che sostituiscono, trasferiscono o reimpiegano le somme provenienti dall’illecito commesso. La possibilità di rivolgere all’ente una sanzione per la condotta di autoriciclaggio ha fatto sì che si potesse riconoscere in capo allo stesso una responsabilità per un numero potenzialmente infinito di reati, che andrebbe ben oltre il perimetro tracciato dal decreto stesso.

La predisposizione all’interno del D.Lgs. 231/2001 di un sistema tassativo di reati presupposto è volta a soddisfare una esigenza di legalità dell’illecito ascrivibile al soggetto collettivo. L’ampiezza del rischio-reato da dover prevenire attraverso l’adozione di Modelli organizzativi compone, così, la tipicità dell’illecito ascrivibile all’ente. Quanto affermato consente di giungere alla riflessione secondo la quale l’ingresso nel sistema di un numero incalcolabile di illeciti, amplierebbe l’area del rischio in maniera incompatibile con lo stesso principio di tassatività, che connota la configurazione della responsabilità ex D.Lgs. 231/2001.

Uno dei principali problemi interpretativi riguarda la compatibilità strutturale del reato di autoriciclaggio con la tassatività propria che connota il catalogo dei delitti delineato dal Decreto legislativo 231/2001 nel Capo I Sezione III.

Alcune letture dottrinali sposano una tesi restrittiva circa il sorgere della responsabilità in capo all’ente per il reato di autoriciclaggio, in relazione esclusivamente a quelle fattispecie di delitti ritenuti idonei a fondare la responsabilità ed espressamente previsti e richiamati dal D.Lgs. 231/2001 agli artt. da 24 a 25 quinquiesdecies.

In effetti, una prospettiva interpretativa opposta violerebbe il principio di tassatività circa il sorgere della responsabilità amministrativa in capo all’ente espressamente disciplinata all’art 2 del Decreto.

L’indeterminatezza della formula ex art. 648 ter. 1 c.p. “delitto non colposo” trasformerebbe tale fattispecie in una disposizione “aperta”, dal contenuto elastico e dai confini indefiniti, con la conseguenza di veder configurare un sistema punitivo 231 a doppio volto: da un lato, quello tipico e legale, delineato dalla parte speciale del Decreto; dall’altro, un sistema costituito da un catalogo di reati in realtà indeterminato. Tale impostazione rischierebbe di vanificare l’esimente derivante dall’elaborazione di presidi cautelari ad hoc circa i singoli reati-presupposto, dacché l’ente si troverebbe nella assoluta impossibilità di far fronte a un numero illimitato di condotte che potrebbero configurarsi nella nozione “delitto non colposo”.

L’ente avrà pertanto l’onere di introdurre dei presidi cautelari nell’ambito del Modello 231, volti a salvaguardare lo stesso da condotte di carattere obiettivamente e soggettivamente anomalo, vale a dire dalle operazioni finanziarie poste in essere dall’ente secondo la logica propria del D.Lgs. 231/2007, e non focalizzati sull’accertamento della commissione del delitto presupposto dell’autoriciclaggio.

Tuttavia, tanto la giurisprudenza di merito quanto la giurisprudenza di legittimità sembrano pressoché abbracciare la tesi secondo cui, in tema di autoriciclaggio, non si ravvisa incompatibilità nel considerare il catalogo dei reati presupposto come un catalogo potenzialmente aperto e non incompatibile con la tipicità dei reati presupposto antecedenti, dalla cui commissione deriva il sorgere della responsabilità in capo all’ente. A tal proposito, è utile analizzare due recenti pronunce della Corte di Cassazione, che non hanno ravvisato alcuna incompatibilità con la tesi succitata ai fini dell’insorgenza della fattispecie di responsabilità in capo all’ente.

Un ulteriore profilo problematico dell’art. 25-octies 231/2001 è quello attinente alla delimitazione della platea di soggetti autori del delitto presupposto.

La Corte di Cassazione, Sezione II, del 17 gennaio 2018, n. 17235, ha disposto che il soggetto che , non avendo concorso nel delitto presupposto non colposo, ponga in essere la condotta tipica i autoriciclaggio o contribuisca alla realizzazione da parte dell’autore del reato presupposto delle condotte indicate dall’art 648 ter 1 c.p., sarà chiamato a rispondere del reato di riciclaggio e non nel concorso nel delitto di autoriciclaggio, essendo quest’ultimo configurabile solamente nei confronti dell’intraneus. Secondo una interpretazione orientata a quanto stabilito dai giudici di legittimità, il contributo causale agevolatorio dell’extraneus verrebbe ad essere punito ai sensi dell’art.648-bis c.p. – quale fatto di compartecipazione al riciclaggio di beni dalla provenienza illecita.

Questo orientamento è stato confermato da una sentenza recente, del 24 gennaio 2019, ove la Corte di Cassazione afferma nuovamente che l’autoriciclaggio è configurabile solo nei confronti dell’ intraneus e non del concorrente della sola condotta riciclatoria. La decisione, richiamando la precedente sentenza del 2018 prima citata , sostiene che chi “non avendo concorso nel delitto presupposto non colposo, ponga in essere la condotta tipica di autoriciclaggio o contribuisca alla realizzazione da parte dell’autore del reato-presupposto dalle condotte indicate dall’art. 648 ter 1 c.p., risponde di “riciclaggio” e non di concorso nel delitto di autoriciclaggio, essendo questo configurabile solo nei confronti dell’intraneus.

Dunque il delitto non colposo presupposto, a prescindere dal fatto che sia stato realizzato in autonomia operativa o in concorso deve essere attribuibile al/ad almeno uno dei/a tutti i soggetti attivi dell’autoriciclaggio. Preme sottolineare che nulla osta alla configurabilità della responsabilità amministrativa ex D.Lgs. 231/2001 in capo all’ente il grado di coinvolgimento in termini di interesse e vantaggio, da esso conseguiti, del soggetto autore del reato presupposto. Infatti, l’interesse dell’autore del reato può anche solo coincidere con quello della persona giuridica, alla quale sarà imputabile l’illecito anche quando l’agente, perseguendo il proprio autonomo interesse, finisca per realizzare obiettivamente quello dell’ente.

Le modalità operative delle azioni di riciclaggio odierne rappresentano sostanzialmente l’evoluzione delle tipiche frodi fiscali o dei reati societari e fallimentari. In questo senso, si può affermare come, nel corso degli anni, si siano sviluppate differenti tipologie di laundering ways.

Il money laundering,consolidatosi storicamente tanto nelle prassi applicative quanto nelle applicazioni giurisprudenziali e dottrinali in tema di antiriciclaggio, vede oggi aggiungersi una forma di attività di occultamento e reimpiego di capitali di provenienza delittuosa, mediante la dematerializzazione delle condotte tipiche del riciclaggio, attraverso modalità proprie della criminalità informatica e virtuale, il cd. cyber laundering.

Le monete virtuali da trend in rapida ascesa che sembrava essere cavalcato da rampolli della new-economy ed appassionati di hacking si sono rapidamente trasformate in un vero e proprio macrosistema economico-finanziario che corre in parallelo rispetto a quello delle economie e delle monete tradizionali.

Il mondo del fintech – la tecnologia applicata alla finanza – sta difatti ponendo sempre più attenzione al fenomeno delle criptovalute e, conseguentemente, cresce il rischio di criminalizzazione e di commissione di condotte illecite che possono portare alla responsabilità degli operatori. Se da un lato sembra che stia realizzando l’idea originaria dei creatori delle prime cripto-valute, che sostenevano un principio di democrazia finanziaria, caratterizzata dall’assenza di intermediari e controllo statale, dall’altra si assiste ad una rischiosa degenerazione criminogena connessa alla natura decentralizzata e al regime di anonimato che governa le transazioni in moneta virtuale, favorendone così l’utilizzo per finalità illecite.

Gli schemi di valuta virtuale possono essere centralizzati o decentralizzati, intendendo circa questi ultimi quelli fondati sull’assenza di un emittente, di un amministratore ovvero di un gruppo di controllo.L’elemento di decentralizzazione conduce a riflessioni sul funzionamento di tale sistema.

In prima battuta è necessario sottolineare come la criptovaluta ha sovvertito il sistema dei controlli sulle transazioni economiche già in uso, in caso di ricorso a moneta elettronica. Normalmente, il controllo sulle transazioni economiche è effettuato dalla banca per mezzo della quale l’operazione si compie: il controllo verte pertanto sulla disponibilità economica, sulla effettiva identità di colui che compie le operazioni e, infine, su una attività di aggiornamento dei saldi contabili. A loro volta, le banche sono soggette a controlli da parte di una banca centrale; pertanto, il sistema di controlli può essere riconosciuto come una struttura centralizzata, costruita su un modello verticistico.

Qui risiede, probabilmente, la più importante rivoluzione introdotta dal sistema delle criptovalute: esso si caratterizza infatti per essere un sistema a controlli decentralizzati, peer-to-peer, fondato su un semi-anonimato dei suoi utenti, tutti potenzialmente in grado di realizzare controlli su qualunque transazione economica, mediante un libro contabile accessibile a chiunque, attraverso il meccanismo della blockchain.

Lo stigma della assoluta trasparenza che caratterizza il database pubblico della blockchain, come registro distribuito liberamente accessibile, incontra un limite notevole nei c.d. servizi di mixing, che – attraverso una sofisticata rete di operazioni articolate con le quali si depositano le criptovalute sui «conti in ingresso » (gateway) e si riacquistano sui «conti in uscita» (withdrawing) – consentono di rendere più difficoltosa la ricostruzione delle operazioni registrate nella blockchain, in modo da non poter più identificare un legame tra il denaro depositato e il denaro riacquistato. Sono inoltre a disposizione software che consentono di camuffare il proprio indiritzzo IP (c.d. proxy server), che consentono di poter far risultare connesso un computer anche da un continente diverso da quello in cui effettivamente l’utente si trova, garantendogli un completo anonimato.

I sistemi decentralizzati, su cui poggiano le valute virtuali, seguono logiche che garantiscono il funzionamento nonostante l’assenza di un coordinatore di ultima istanza, attraverso l’autorganizzazione.

Nel quadro degli attori che agiscono in tale contesto, oltre agli utenti (user) sopra citati, si annoverano: i wallet provider, ovvero società che conservano la chiave privata (criptata) di accesso al conto e che forniscono agli utenti i c.d. portafogli elettronici (virtual currency wallet o e.wallet); i programmi informatici, che consentono agli utenti di detenere e scambiare le criptovalute; i virtual currency exchanger, persone fisiche o giuridiche che permettono agli utenti di scambiare moneta virtuale con moneta legale (e viceversa.)

La transazione non è svolta attraverso un soggetto terzo che possa verificarne correttezza e fattibilità; il soggetto che voglia eseguire un trasferimento dovrà pubblicare la propria chiave pubblica – un codice identificativo visibile a tutti, attraverso il quale il soggetto in questione può essere riconosciuto – e una chiave di accesso al conto criptata. Per poter autorizzare l’operazione, gli utenti sono chiamati a decriptare tale chiave. Tutte le operazioni sono fondate sulla crittografia, le transazioni avvengono online, in forma anonima e fuori dal penetrante controllo delle autorità statali.

Conclusioni

Una qualsiasi organizzazione criminale, dunque, potrebbe acquistare criptovalute tramite carte di credito prepagate intestate a prestanome su piattaforme di exchange. Le criptovalute così acquistate possono essere trasferite su piattaforme in tutto il mondo, ovvero possono essere cambiate in valuta reale in parsi dove sono assenti gli obblighi antiriciclaggio e diventare denaro assolutamente “pulito” senza alcuna possibilità di rintracciarne la provenienza, ovvero possono essere utilizzate per compiere attività illecite direttamente in criptovalute, continuando ad alimentare il mercato del deep web.

Queste peculiarità possono essere terreno fertile per il prosperare di reati quali il riciclaggio o l’autoriciclaggio.

Le criptovalute pertanto risultano essere connaturate di un’intrinseca idoneità dissimulatoria che unita alla oggettività giuridica dei delitti di riciclaggio/autoriciclaggio ne fanno emergere da subito l’evidente astratta compatibilità di tali fenomeni.

Oltre all’ordinamento comunitario anche l’ordinamento giuridico interno si è occupato di dare qualificazione alle criptovalute. La giurisprudenza ha affrontato pertanto la definizione delle criptovalute assimilandole al concetto di bene, definito dalla teoria economa come quale mezzo (fisico immateriale o servizio) suscettibile di essere utilizzato da parte di un operatore per la produzione di un altro bene. Tale accostamento si scontra con l’impostazione imperniata sulla nozione giuridica “fisica” di bene ricavabile dll’art. 810 cc. La negazione tout court della qualifica di beni per carenza della materialità pur se aderente alla visione dell’impianto codicistico del 1942 non tiene conto delle nuove forme di ricchezza, attraverso un’interpretazione evolutiva ed analogica. Ciò detto implica che le criptovalute possano essere intese quali mezzi di scambio qualificabile pertanto come bene giuridico.

La soluzione appare positiva dal momento che la categoria dei “beni” deve intendersi riferita sia ai beni c.d. materiali che a quelli c.d. immateriali e comunque, data l’indiscutibile rilevanza economica, le criptovalute potranno comunque rientrare nel più ampio concetto di utilità.

Uno dei maggiori casi di riciclaggio on line mai verificatisi è il c.d. Liberty Reserve.

La società Liberty Reserve era un ente di intermediazione mobiliare con sede in Costa Rica, accusata di aver concorso nel riciclaggio di 6 miliardi di dollari di profitti illeciti. La Liberty Reserve aveva coniato la cpritovaluta Liberty Dollar, gestita in maniera centralizzata e scambiata con il dollaro statunitense secondo il rapporto di cambio stabilito dall’ente. Gli utenti potevano aprire un account e gestire un proprio e-wallet attraverso il sito internet della società, la quale non compiva alcun controllo sulla genuinità dei dati immessi. I depositi e i prelievi erano fatti attraverso exchanger fidati – generalmente intermediari mobiliari non registrati e residenti in paesi senza presidi antiriciclaggio – e gli utenti potevano effettuare transazioni in Liberty Dollar in tutto il mondo.

A prescindere da un effettivo concorso nelle attività di riciclaggio, pertanto, exchanger e wallet provider incomberanno in una specifica responsabilità penale. Sorge la responsabilità dell’exchanger per il reato di riciclaggio, con riferimento ai proventi del reato presupposto commesso dall’utente, se questi si avvale dei servizi offerti dall’exchanger per ostacolare l’identificazione degli stessi; se l’exchanger opera in forma societaria, l’ente potrebbe essere ritenuto responsabile ex art. 25-octies D.Lgs. n. 231/2001, dal momento che tutte le condotte illecite poste in essere con le cryptocourrencies, costituiscono anche reati presupposto della responsabilità delle persone giuridiche.

Il recepimento della V Direttiva Antiriciclaggio ha rappresentato, per il nostro Paese, l’occasione di ampliare e ridefinire la platea dei soggetti che operano nel settore delle valute virtuali, chiamati oggi ad adempiere agli obblighi antiriciclaggio.

In conclusione, se il riciclaggio risulta essere conseguenza di ogni forma di criminalità orientata al patrimonio, il raggiungimento dello scopo, quindi “lo sradicamento del riciclaggio”, mediante l’incapacità di circolare di ogni patrimonio contaminato, presupporrebbe o la fine della criminalità o l’eliminazione del denaro.